Il romanzo di Matilda

Il primo romanzo storico che ripercorre la vita della Grancontessa Matilde di Canossa.

La vita, i lutti, gli amori, le lotte, la caduta, il riscatto, le violenze e le passioni della Grancontessa Matilde di Canossa, un romanzo storico che ricostruisce gli eventi fondamentali della sua vita attraverso l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia, cercando di restituire tutta la potenza al personaggio a 900 anni dalla sua scomparsa. In uscita a luglio 2015.

giovedì 9 aprile 2015

Il dono di Bonifacio

Uscito nell'antologia Racconti balsamici della Damster nel 2008, questo mio racconto è dedicato a Bonifacio di Canossa, padre di Matilde. Balsamico. Elemento sensuale in una folle passione. Movente di un efferato delitto. Arma per uno sporco ricatto. Pegno di una fedele amicizia. Pretesto per una guerra tra fazioni. Tutto questo e tanto altro può essere l'Aceto, specie se Balsamico, specie se quello tradizionale di Modena. Un elemento gastronomico che si trasforma in elemento narrativo, raccontato in diciannove modi diversi in altrettante storie appassionanti. La nebbia si confonde col passato, il mistero con il gusto di raccontare, e l'aceto si tinge del rosso del desiderio e del sangue, del giallo dell'omicidio e della gelosia, attirando e trasportando il lettore in una dimensione dove il profumo e il sapore  creano un'atmosfera unica, avvolgente e.... balsamica.


Il dono di Bonifacio

di Eliselle

Nella sala delle adunanze Enrico III, imperatore del Sacro Romano Impero, attendeva da ore l’arrivo del duca Bonifacio, signore di Canossa e di Toscana, il più potente di tutti i signori del regno che gli avevano giurato fedeltà. Assiso sul trono, circondato dal corpo di guardia reale, Enrico tradiva nonostante tutto una certa nervosa impazienza.
Era passato troppo poco tempo da quando si era scontrato con l’orgogliosa ostinazione di Bonifacio, e ne era trascorso ancora meno da quando aveva tentato di catturarlo la prima volta, attirandolo nel suo palazzo con la scusa di un consiglio privato, per toglierlo definitivamente di mezzo. Ma in quell’occasione aveva fallito miseramente a causa dell’astuzia e della potenza militare dell’erede dei Canossa.
Il fatto era accaduto poco dopo aver subito il rifiuto di Bonifacio di far attraversare i territori sotto il suo controllo e accompagnare fino a Roma Damaso II, il nuovo papa legittimo, scelto dall’imperatore in persona. Un’azione irragionevole, un comportamento deplorevole, assolutamente indegno di un vassallo. Ma questa non era stata l’unica sua mancanza. Bonifacio aveva fatto molto peggio. Aveva osato appoggiare l’altro papa, Benedetto IX, non gradito all’impero, e si era dimostrato recalcitrante a compiere il suo dovere di uomo fedele. E sebbene alla fine avesse capitolato, il suo affronto aveva infastidito il sovrano, che riteneva ormai Bonifacio più influente del dovuto. E pericoloso.
Era eccessivamente sicuro di sé, quel Bonifacio. Aveva dalla sua il controllo totale su un territorio dall’enorme importanza strategica, un esercito forte e ben organizzato, appoggi politici importanti e un legame d’amicizia molto stretto col papato. Questa situazione lo faceva sentire in diritto di compiere scelte che scavalcavano l’autorità imperiale, e questo non era un bene, a Enrico non piaceva. Doveva fermarlo. La cosa andava assolutamente fatta.
“Quanto manca, Gismund?”
“Non molto, mio signore. Le sentinelle dicono che è in arrivo” rispose rapido il consigliere.
Mentre attendeva, Enrico ripensò a come Bonifacio era sfuggito all’agguato che gli aveva preparato con tanta cura. La rabbia ribolliva ancora nel suo animo ogni volta che gli tornava alla mente il volto soddisfatto del suo vassallo e quel sorriso appena accennato, che significava più di mille parole.
Bonifacio aveva capito, era chiaro. Era stato attirato con pochi uomini nella sala del trono per essere isolato dagli altri e catturato con più facilità, ma non aveva dato soddisfazione al sovrano. Si era inchinato al cospetto di Enrico dopo che la sua corte fedele, per non lasciarlo solo, aveva abbattuto tutte le porte del castello del sovrano nonostante fossero state sbarrate dalle guardie imperiali, e lui non aveva potuto fare nulla, se non dirgli: “Che vedo? Mi meraviglio di te, Bonifacio!” fingendo sorpresa e rammarico. Ma covando dentro di sé il fuoco di un drago.
Non aveva potuto imprigionarlo, e aveva dovuto simulare amicizia con parole pacate e gesti imperturbabili. Ma non aveva rinunciato alla sua vendetta. Se non era riuscito la prima volta, ci sarebbe riuscito la seconda. E l’oscurità gli era apparsa l’alleata migliore per portare finalmente a compimento il suo disegno.
Aveva fatto sapere al duca tramite un ambasciatore che avrebbe gradito se egli avesse vegliato un po’ su di lui, nottetempo. E come sempre, Bonifacio aveva risposto alla richiesta, perché non voleva mancare all’ossequio dovuto al suo sovrano. Il senso del dovere e la fedeltà sarebbero stati la sua disfatta. Questa volta non poteva fallire, la notte gli avrebbe dato l’occasione giusta. Un assalto nella foresta che il duca doveva attraversare per arrivare al palazzo del re era un piano che non poteva non avere successo. Enrico sorrise impercettibilmente, e distendendo le gambe, si rilassò.
Fu la voce di Gismund a interrompere d’improvviso la sua meditazione.
“Mio signore, le sentinelle sono giunte di corsa, i servi gridano! Qualcosa di terribile e straordinario si sta avvicinando al castello!”
L’agitazione del consigliere riscosse Enrico che irrigidì la schiena e si spinse in avanti.
“Che cosa intendi, che sta succedendo là fuori?”
Il sovrano si alzò dal trono e si precipitò alla grande finestra che dava sulle mura interne e lasciò che lo sguardo si perdesse al di fuori, lungo la strada che portava verso sud.
Quello che vide lo lasciò senza fiato.
Una lunga colonna splendente di fulgida luce, un serpente di fuoco si muoveva lento e attraversava la foresta facendosi sempre più vicino all’enorme porta d’ingresso, solida e sicura, sbarrata da solide travi di legno, chiusa da serrature in ferro e sorretta da cardini in pietra. Non c’erano parole per descrivere le emozioni che attraversavano il cuore di Enrico, sopraffatto da quello spettacolo incredibile: era una selva di fiamme, sembrava che lo stesso terreno stesse bruciando.
Quando la colonna si fermò sotto le mura, il consigliere raggiunse Enrico e si inchinò.
“Mio signore, il duca Bonifacio, signore di Canossa, è qui per servirvi.”
E l’imperatore capì.
Si fece portare il mantello pesante, ordinò a Gismund di accompagnarlo portando una minima scorta e fece una cosa che non aveva mai fatto prima di allora: decise di scendere fino alla grande porta principale, per accogliere di persona il suo vassallo.
Quando i battenti si aprirono, svelarono agli occhi del sovrano quello che da lontano sembrava un mostro infuocato pronto a divorare il suo palazzo: Bonifacio gli stava davanti a cavallo e dietro di lui lo seguiva il suo esercito. Egli aveva fatto preparare molti piccoli ceri, ciascuno del peso di una libbra di cera, e li aveva affidati ai suoi soldati, che li avevano piantati accesi sulla punta delle loro lance. Ora lui appariva in mezzo a loro avvolto da un mirabile splendore, come un’apparizione divina, come l’incarnazione di San Michele, l’invincibile santo guerriero.
Il duca scese da cavallo e si inchinò ai piedi di Enrico, abbassando la testa e rendendogli omaggio, di nuovo come se nulla avesse sospettato, e il sovrano, rendendosi conto che non poteva nulla su di lui, lo ringraziò vivamente e gli disse di tornare a Canossa.
Bonifacio, inaspettatamente, intervenne.
“Mio signore, non sono venuto sin qui da voi invano.”
“No, affatto. La vostra fedeltà è stata ancora una volta confermata.”
Enrico sorrise.
“Permettetemi allora di fare di più, per voi” continuò Bonifacio.
“Tutto ciò che vi ho chiesto, lo avete esaudito.”
Il sovrano voleva mantenere una certa fermezza. Aveva già fallito due volte, non voleva che accadesse una terza volta, in più davanti alla sua gente. Quella sarebbe stata una sconfitta morale, il ché la rendeva un male persino peggiore. Doveva almeno dimostrare che poteva far andare e venire a suo piacimento gli uomini che lo servivano, e non aveva alcuna intenzione di ospitare Bonifacio nel suo palazzo, quella notte. Avrebbe significato riconoscere la sua potenza.
“Ho affrontato un lungo viaggio” iniziò Bonifacio, “ma ho portato con me una cosa che vorrei donarvi, a riprova della mia fedeltà.”
Enrico si incuriosì alle parole del duca. Era sempre stato un uomo molto astuto, il Canossa, così come i suoi antenati, doveva forse aspettarsi un tranello? Dopo un attimo di esitazione, decise di correre il rischio.
“Che cos’hai portato, Bonifacio?”
Il suo vassallo si alzò e fece un cenno a uno dei suoi uomini, che ficcò la lancia a terra e scomparve nelle retrovie. Dopo qualche istante, tornò guidando due buoi aggiogati a un carro che trasportava qualcosa, coperto da un telo scuro. I buoi si fermarono di lato al re e alla sua scorta, per permettere al duca di togliere il telo e mostrare il contenuto del carro.
Il sovrano rimase meravigliato davanti al botticello tutto in argento, illuminato dalle luci delle candele, che a una prima occhiata doveva valere una fortuna. Quanto denaro possedeva, il suo vassallo?
“Ecco a voi, mio signore. Questo è quell’aceto tanto conosciuto e celebrato che si fa alla rocca di Canossa. È un condimento dal sapore invitante, lo potrete accompagnare con la selvaggina e col formaggio, renderà più gustosa la carne e lo potrete usare anche come balsamo benefico, per la vostra salute. Vi prego di accettare questo omaggio, come pegno del mio onore. Perché possiate comprendere appieno la mia amicizia e devozione.”
Bonifacio accompagnò le sue ultime parole con uno sguardo eloquente, che si ficcò negli occhi del sovrano e lasciò intendere tanto altro. L’imperatore non disse nulla, limitandosi ad annuire.
Enrico fu felice ed ebbe caro questo magnifico dono di Bonifacio, perché tanto aveva desiderato conoscere la squisitezza di quel liquido scuro di cui si favoleggiava ma che non aveva mai assaggiato. E così, accolse l’aceto balsamico di buon grado, accettando serenamente l’amicizia del signore delle terre di Reggio, Modena e Toscana. Lo avrebbe lasciato in pace, decise. Almeno fino a quando non si sarebbe presentata un’occasione più propizia.

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