Il romanzo di Matilda

Il primo romanzo storico che ripercorre la vita della Grancontessa Matilde di Canossa.

La vita, i lutti, gli amori, le lotte, la caduta, il riscatto, le violenze e le passioni della Grancontessa Matilde di Canossa, un romanzo storico che ricostruisce gli eventi fondamentali della sua vita attraverso l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia, cercando di restituire tutta la potenza al personaggio a 900 anni dalla sua scomparsa. In uscita a luglio 2015.

lunedì 28 settembre 2015

Il romanzo di Matilda - Un eminente punto di vista


Schivenoglia, 19 settembre 2015
Elisa Guidelli, Il romanzo di Matilda, Bologna, Meridiano Zero, 2015
Presentazione di Andrea Tilatti


L’Autrice, in chiusura del suo testo, ricorda: «Il 24 luglio 1115 Matilda muore a Bondeno [di Roncòre – Reggiolo RE] all’età di sessantanove anni. Viene sepolta nel convento di San Benedetto di Polirone, presso Mantova, da dove la salma, per ordine di Urbano VIII, viene trasportata nel 1632 nel Vaticano e onorata di un monumento a lei dedicato» (p. 379).
Sono dunque trascorsi esattamente novecento anni da quando si concluse la vita alla quale è ispirato il romanzo di Elisa Guidelli. È perfettamente inutile, credo, che io insista su queste notizie, tanto più che – suppongo – sono arcinote a tutti i presenti, data la numerosità di celebrazioni delle quali ho saputo, sparse in tutto il territorio che fu dei signori di Canossa, da una parte all’altra dell’Appennino, ma anche oltre. Sicuramente la ricorrenza ha favorito pure l’ispirazione di Elisa, ma sono certo che il suo interesse per la figura di Matilda/Matilde è ben più antico e profondo: come lei stessa afferma, dura da almeno un decennio.
Presentare un libro – questo come un altro – significa aver davanti una pluralità di strade, che si originano dal soggetto presentante e si ramificano negli incroci con l’oggetto presentato. Mi spiego. Io potrei decidere di indossare l’abito del professore di storia medievale (che poi sarebbe il mio mestiere), o del critico letterario (che non è esattamente il mio mestiere), oppure del semplice lettore (che alla fine può essere il mestiere di chiunque). Il primo, mi pare, è già stato indossato abbastanza da numerosi colleghi ben più autorevoli di me, in questo centenario matildico. Il secondo mi costringerebbe a un’analisi troppo interna al libro e forse addirittura noiosetta, e non solo per me. A tutela di tutti, vorrei perciò scegliere l’ultimo costume, quello del semplice lettore, anche se ogni tanto chiederò in prestito agli altri due qualche attrezzo di lavoro.
Voglio dire subito che sono stato un lettore privilegiato, di questa come di altre fatiche dell’autrice. Qualche anno fa, ho letto la sua tesi di laurea, come relatore, e non troppo tempo fa ho letto buona parte della prima versione del romanzo, che allora aveva un altro titolo (Matilde, contessa, regina, se non ricordo male) e differiva anche per altri particolari, dei quali poi dirò qualcosa. Il privilegio si estende inoltre alla possibilità di esternare pubblicamente le mie impressioni. Ringrazio per tal motivo gli organizzatori di questo incontro.
Ma le strade offerte a chi presenta un libro si moltiplicano anche per l’opportunità di scegliere gli argomenti da evidenziare, o da trattare, che tutti si trovano nel testo, ma si lasciano scoprire a seconda delle sensibilità e delle intenzioni di lettura.
Non voglio abusare della pazienza di alcuno e quindi, tra le tante cose possibili, ne sottolineerò tre: il titolo, i protagonisti, e il rapporto tra storia e romanzo.


Il titolo

Credo che Elisa abbia fatto benissimo a intitolare questo libro Il romanzo di Matilda, almeno si svincola immediatamente da ogni ambiguità narrativa e inventiva rispetto all’ingombrante figura della protagonista.
Personalmente, il nome Matilda, tra l’altro, mi suscita il ricordo di una canzone, del 1953, di Harry Belafonte (un calypso). Matilda, quella della canzone, è una tizia simpatica che prende i soldi al cantante e scappa in Venezuela... 500 dollari che servivano al malcapitato per la casa. Altra donna fatale, a suo modo.
Non penso che Elisa abbia condiviso questa suggestione musicale, ma sicuramente ha riflettuto sul nome. Nella prima versione provvisoria, che ho letto, Matilde si chiamava Matilde, è diventata Matilda ed è stata con questo piccolo e semplice accorgimento nel mondo del romanzo e sottratta a quello della storiografia corrente (Matilde, contessa, regina). In larga misura si è affrancata dagli obblighi di seguire i binari della realtà conosciuta e si è potuta addentrare in dimensioni altrimenti precluse: quelle della vita intima e sentimentale, ad esempio. Riprenderò tra un po’ questo filo.

I protagonisti

A mio parere, i protagonisti principali di questo romanzo sono tre. Certamente di primo acchito a chiunque verrebbero in mente alcuni nomi di persone: Matilde o, meglio, Matilda, Gregorio VII o, meglio, Ildebrando, che ha il suo storico contrario, ossia Enrico. Ciò va benissimo, è ovvio, ma io vorrei usare la maiuscola dei personaggi per contraddistinguere altri tre protagoniti: il Maschile, il Femminile e il Territorio, e cioè le terre, le (o LA) pianure/A, i boschi, le paludi, i fiumi e i monti, le strade, i castelli, i borghi e le città nelle quali si svolgono le vicende narrate.
Voglio partire dal Territorio, che a mio parere (e me ne rendo conto proprio perché vengo da un altro contesto geografico) è davvero uno dei protagonisti principali, lo sfondo che amalgama e unisce tutte le vicende, le rende in larga misura familiari, le avvicina al lettore, individua pure un pubblico privilegiato. Ciò accade perché esso è sempre presente, con i nomi e le descrizioni, e lega la figura positiva (quella di Matilda) e anche altre, minori, a radici ben precise e anche a ben precisi giudizi di valore. Canossa, Bianello, Carpineti, per nominare solo alcuni castelli di un’epoca guerriera e signorile, che nelle campagne aveva i suoi caposaldi... ma anche San Benedetto Po, Nonantola e, più lontano, Pomposa, abbazie presidio di fede e di potere... ma anche Mantova, Reggio nell’Emilia, Modena, Lucca... città dove nasceva il nuovo medioevo, fatto di cattedrali nuove e di mercati e di popolo, ma unite a filo doppio con il passato delle campagne e della terra e con gli stessi signori delle rocche e dei castelli...
Tutti questi nomi e tantissimi altri ricorrono nelle pagine del romanzo. Il lettore li sente suoi, si sente a casa, rassicurato sulla bontà del suo essere. Basti confrontare la cupezza del primo soggiorno in Germania, ospiti forzate (Matilda e la madre Beatrice) di Enrico III (o II) il Nero: «A Bodsfeld faceva freddo, il cielo era sempre grigio, così lontano dall’azzurro e dalla luce della città in cui era cresciuta [Mantova]. Matilda cercava di non pensare al verde dei prati e ai riflessi delle acque che la circondavano, ancor meno alle lunghe cavalcate tra le braccia del padre, e ogni volta che le succedeva la prendevano fitte di malinconia che la costringevano a chiudersi nella propria camera da letto a piangere, da sola» (p. 47). O pensare al senso d’esilio patito a Orval, in Lotaringia, durante il coniugio con Goffredo il Gobbo: «Matilda si concedeva lunghe passeggiate a cavallo con cui sfidava il freddo della Lotaringia: la facevano sentire viva, e preferiva essere sola, per riflettere e ritrovare se stessa. Non aveva legato molto con le nobili presenti a palazzo, e non solo perché gravitavano tutte attorno alla famiglia dei Lorena, ma anche perché non aveva molto in comune con delle donne che non facevano altro che passare il tempo a cucire, parlottare, vivere di pettegolezzi e di ripicche. Non era il suo mondo, non era la sua gente, non erano le sue abitudini e non le interessava uniformarsi a quello stile di vita: il suo unico desiderio era quello di abbandonare quelle terre che la facevano sentire inutile e straniera, e tornare a casa per ritrovare e riabbracciare i suoi affetti più autentici. Spesso si era chiesta di quale luogo sentisse davvero la mancanza. Se Mantova, con le sue acque e le sue luci dorate, che aveva assistito impassibile alla morte di suo padre, o Canossa, con le sue mura scure e impenetrabili, che l’aveva protetta e cullata dopo la scomparsa dei fratelli. Se Lucca, crocevia di genti e di culture, o piuttosto Firenze, luminosa e spietata, dove si trovava forse adesso la madre. O ancora Roma, coi suoi ruderi e le sue chiese, regina e ruffiana, custode insidiosa di Ildebrando e di tutti i suoi segreti. Forse in modo diverso le mancavano tutte, o almeno i momenti più belli che aveva vissuto in ognuna di esse, e quando la malinconia l’assaliva cercava di enumerarli uno per uno dentro al suo cuore» (p. 98).
Ecco: questi legami, questa familiarità che creano empatia per i compatrioti, per la gente di casa, e anche antipatia per gli estranei, sono un tratto che procede ininterrotto sul filo del protagonismo del Territorio.
Faccio un esempio al contrario per spiegarmi meglio. Io vengo dal Friuli, una terra che nel secolo XI e nel XII, in consonanza cronologica con la storia di Matilde, era soggetta alle formidabili figure dei patriarchi d’Aquileia, rampolli di famiglie aristocratiche transalpine, vescovi e signori temporali di un territorio pressoché senza città. Udine, Gorizia e Pordenone non esistevano se non come castelli di limitata importanza; Aquileia e Cividale non potevano essere comparate con le città della pianura padana o della Toscana. Eppure Aquileia era stata una metropoli e l’erede ne fu il patriarca (del quale, tra l’altro, il vescovo di Mantova era suffraganeo). Il patriarca d’Aquileia Sicardo, in quel complicato 1077 (l’anno del dramma di Canossa), fu a fianco del re di Germania, e ne ottenne il comitato e il ducato del Friuli in dono. L’avvenimento è ricordato nella mia regione – non senza abbondanti strumentalizzazioni attualizzanti, ché la storia è ben diversa – come l’atto politico di nascita del Friuli come stato autonomo. Uno stato che fu abbattuto, si noti, dall’italianissima e serenissima Venezia nel 1420. Sarà a motivo di questa memoria storica somatizzata pressoché inconsciamente (e che da storico cerco in ogni modo di demitizzare), sarà per l’impressione letteraria fortissima che in me giovinetto liceale creò la lettura del dramma di Pirandello Enrico IV (noto per inciso che la donna amata dall’anonimo protagonista pazzo o finto pazzo, la marchesa, si chiamava Matilde di Spina), ma io friulano non riesco proprio a vedere il cattivone così cattivo... Enrico IV (III come imperatore) è comunque per me un personaggio circonfuso di una tragica grandezza. Sono sicuro che la maggior parte dei friulani consapevoli della sua esistenza condividono un vago sentore positivo verso quel sovrano e più latamente verso l’Impero, spesso sopravvissuto e confuso nei favoriti bianchi di Francesco Giuseppe I. Il patriarcato condivide pure l’aquila imperiale nei suoi simboli. Ebbene, sono persuaso che anche in questo caso si può parlare di un Territorio capace di influenzare il giudizio degli uomini con il peso della sua tradizione.
Gli altri due protagonisti, così come mi è parso di leggerli e di materializzarli, vanno esaminati ed assunti assieme, dato che Maschile e Femminile interagiscono continuamente. Gli uomini, intesi come maschi, non fanno una gran bella figura nel romanzo, specialmente un paio di loro: Enrico IV e Goffredo il Gobbo. Forse anche per il fatto che essi hanno avuto a che fare, in modo conflittuale, con Matilda. Il discorsetto che Beatrice tiene a Matilda, sua figlia, che aveva appena manifestato tutto il suo disgusto nei confronti del marito e della terra in cui si trovava è di gran lunga più efficace di ogni mia considerazione. Val la pena citarlo: “Siamo considerate il sesso debole, eppure gli uomini hanno bisogno di noi per costruire i loro imperi. Lo fanno disponendo del nostro corpo, dei nostri averi e dei nostri titoli, delle nostre influenze, delle nostre parentele e amicizie. Lo fanno usando e abusando di noi in ogni modo possibile, ma questo è ciò che dobbiamo affrontare, e dobbiamo superarlo facendoci forza, poiché siamo sole davanti alla loro arroganza e alla loro avidità, alle loro debolezze, alle loro meschinità e alla loro brutalità. E se vogliamo vincere, dobbiamo farlo con l’astuzia, l’intelletto e tutte le armi che hanno messo a nostra disposizione. Dobbiamo sopravvivere guardando oltre, spesso staccandoci da noi stesse e dai nostri desideri. Sono ben cosciente di questa realtà, e anche se io ho avuto la fortuna di amare Bonifacio vi capisco, e vi sono vicina” (p. 94).
Non mancano certo le figure maschili positive. Ne scelgo alcune a caso: Arduino da Palude, sempre discretamente devoto a Matilda, il fedele monaco Anselmo, per certi aspetti (nonostante il suo spiccato maschilismo) anche Pier Damiani, il normanno Riccardo Drengot, capace di far conoscere l’amore sensuale a Matilda, e sopra tutto, pur con alcune ombre (che ogni lettore scoprirà per conto suo: non posso mica rivelare tutto io!), Ildebrando-Gregorio VII, il vero amore di Matilda e la sua fonte di ispirazione e di forza. L’elenco potrebbe proseguire, eppure, nonostante le eccezioni, dalla parte del Maschile stanno tutti i peggiori caratteri dello spirito umano: l’egoismo, la prepotenza, la brutalità, l’arbitrio, la superbia, anche la stupidità, l’ottusa incapacità di comprendere le ragioni degli altri.
Per le donne non esistono quasi le figure negative. Anche le “nemiche” (tale poteva essere Agnese, la moglie dell’imperatore Enrico il Nero) sono alla fin fine giustificate, perché vittime del loro marito, della loro famiglia, di circostanze sfavorevoli, degli uomini in generale. Il Femminile, sofferente per gli abusi dei quali è vittima, si carica della positività della vita, dalla dimensione biologica, a quella degli affetti famigliari, alla ragione e ragionevolezza dei rapporti sociali.
Vediamo se ora riesco a dire bene questa cosa, che mi sembra di aver compreso, leggendo il romanzo di Elisa Guidelli, e che forse è una delle poche piccole osservazioni dubbiose che posso muoverle. Matilda è indubbiamente l’eroina del romanzo e l’espressione più alta di umanità che si possa rintracciare: bella, intelligente, colta, elegante, astuta, determinata, perseverante, persino intransigente, ma sopra tutto potente e perciò temuta oltre che amata. Nel romanzo non è solo una bambina e una donna, una contessa (anzi, grancontessa), ma anche una madre scaltra e amorevole, seppure sposa infelice... Ma questa aura solare ella la raggiunge per una via che a mio avviso non le rende completa giustizia. Matilde riesce ad essere campionessa di umanità perché assume le prerogative degli uomini, del Maschile, che aggiunge alle peculiarità del Femminile: l’autorevolezza, la forza, la durezza, il valore militare, l’abilità politica... Si potrebbe dire che appare la più virile di tutti i personaggi del romanzo. Il suo opposto è un’altra figura femminile, Adelaide di Susa, che apostrofata malamente dal marito, Rodolfo di Svevia, che le intima di ritirarsi nelle sue stanze, «senza aprire bocca annuì poi si alzò, docile, e se ne andò. Trasparente come uno spettro. Quella era la sua vita. Un’infinita sequenza di silenzi e assensi» (p. 135).
Non voglio dire che la “mascolinità” di Matilda non possa corrispondere ai tempi storici nei quali Matilde davvero visse e agì (per quanto possiamo sapere dalle fonti, il medioevo fu in larga parte degli uomini), o che non corrispose alla sua persona, ma quello del genere delle virtù più o meno pregiate è una questione che viene comunque risolta, allora come ora, a favore del Maschile... anche se intrepretato da una donna, almeno mi pare. Matilda è grande perché si comporta come un uomo. Forse si meritava di meglio?


Storia e romanzo... un problema antico

«Ecco qua! Una faticaccia. Attendo tremante le fustigate!» Con questa e-mail, il 3 marzo scorso, Elisa mi ha avvertito di aver concluso la scrittura del suo romanzo (io avevo cominciato a leggerlo nell’estate precedente). Ovviamente non avevo e non ho alcuna fustigata da infliggere. Ciò nonostante abbia saputo che i miei studenti mi considerino una sorta di sadico torturatore e nonstante debba ammettere che una frustatina ogni tanto, nemmeno tanto metaforica, mi piacerebbe darla... Al massimo avrei qualche annotazione stilistica, ma la confesserò in privato all’autrice, se vorrà sentirla. Comunque si tratta di dettagli frutto di mie personali fissazioni: quelle tipiche delle persone che invecchiano e hanno lo sguardo volto più al passato che al futuro o al presente.
Qui dirò qualcos’altro, che riguarda pure il mio lavoro. Io ho scritto alcuni libri e molti articoli di storia, illudendomi di restar fedele alla verità, di fare ipotesi verosimili, di non falsare alcunché nei miei racconti... Non ho mai scritto un romanzo, perché mi pareva di non aver l’inventiva per farlo, perché la realtà che ho potuto man mano conoscere nelle mie esperienze di studio si è sempre mostrata capace di andar oltre le fantasie più audaci. Eppure col crescere della mia esperienza di ricerca e di scrittura, mi sono sempre meglio accorto di quanto proprio la fantasia, l’immaginazione, la capacità di astrazione e di invenzione siano indispensabili alla storiografia, anche a quella apparentemente più seria e compita. Meglio si scrive, poi, più si realizza l’occasione di comunicare con un pubblico in modo piacevole. Se si realizza questa condizione, si accresce le possibilità della storia, intesa come narrazione, interpretazione e spiegazione del passato, di continuare a far parte della nostra cultura occidentale. A patto però che si scriva di cose che interessano... Elisa mi pare aver colto nel segno.
Nella comunicazione tra il passato e il presente possono giovare anche i romanzi. Senza voler essere esagerati o scomodare ospiti ingombranti, Elisa Guidelli ha mosso i propri passi sulle orme di sir Walter Scott, Alexandre Dumas, Alessandro Manzoni... «I lettori di Alexandre Dumas non sono forse altro che storici in potenza, cui difetta solo l’esser stati orientati a godere di un piacere più puro e, a mio giudizio, più acuto: quello delle tinte autentiche». Questa scriveva cosa Marc Bloch, settant’anni fa e più, a proposito dei lettori di romanzi storici. Dei lettori, a punto. Ma gli scrittori? Gli scrittori dovrebbero già essere storici, più che in potenza, sebbene liberi di aggiungere quel che la storia non dice o non può dire.
Scrivendo un libro su Matilda/Matilde con l’animo di una storica, almeno in parte, Elisa non era del tutto libera rispetto al suo oggetto. In fondo alcuni lineamenti sono noti (e anche rispettati) al punto da limitare le possibilità di deviazione, a meno di non voler narrare una storia solamente e vagamente ispirata ai fatti e ai personaggi del passato. Questa possibilità evidentemente c’era, ma a mio avviso avrebbe rescisso quel legame così perculiare con il protagonista Territorio, che qui c’è ed è un autentico pregio.
Ho accennato prima al piccolo accorgimento del nome: Matilda, la donna del romanzo, al luogo di Matilde, la donna della storiografia (e noto per inciso che negli ultimi anni è apparso un numero considerevole di studi e di monografie, saggi storici e anche d’invenzione, sopra tutto in Italia e in Germania, su Matilde). Sembra poco, ma così a mio avviso si è aperto quello spiraglio, quella zona franca che ha consentito a Elisa di affacciarsi su ciò che agli storici è normalmente precluso, sebbene siano più che consapevoli dell’esistenza di quella dimensione. Mi riferisco all’universo dell’intimità, dei pensieri più reconditi, degli affetti e dei sentimenti più intimi, a quell’universo che le fonti (e specialmente quelle medioevali) non lasciano scorgere.
Non ho perciò niente da dire, come storico, se, dal romanzo, intuisco che Matilda ha avuto i suoi amori, una sua vita sessuale, e anche Ildebrando/Gregorio – quell’uomo intransigente che posso aver conosciuto dalla documentazione – ha pagato i propri debiti alla carne e al sentimento. Non starò qui a dire o a meditare se ciò sia stato possibile, probabile, vero o verosimile... non mi pare che questo sia il problema: non siamo davanti a un testo di storia, intesa come quella paludata storiografia accademica alla quale quotidianamente soccombo, ma a un testo che può permettersi di andare oltre e, forse, di arrivare a un altro tipo di vero e di reale.
Posso dire di aver quindi trovato divertente e stimolante la lettura del romanzo: uno sguardo diverso, un percorso alternativo verso un personaggio di solito accostato per altre strade. So che l’impresa è stata faticosa, che ha richiesto indagini e studio, ma so anche che ha espresso i migliori sentimenti di affetto e di orgoglio per diversi mondi: la figura quasi leggendaria di Matilda/Matilde, l’appartenenza alle terre matildiche e all’universo femminile.
Chiudo con un’ultimissima considerazione, che non vuole affatto smentire quel che ho appena sostenuto. Gregorio VII fu canonizzato nel 1606, circa un quarto di secolo prima della traslazione romana del corpo di Matilde. Egli è dunque un santo. Allora ripeto, in via del tutto prudenziale, a Elisa quel che mi fu detto, in circostanze analoghe, qualche anno fa da un mio maestro: Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi... Non si sa mai! 

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