Schivenoglia, 19 settembre 2015
Elisa Guidelli, Il romanzo di Matilda, Bologna, Meridiano Zero, 2015
Presentazione di Andrea Tilatti
L’Autrice, in chiusura del
suo testo, ricorda: «Il 24 luglio 1115 Matilda
muore a Bondeno [di Roncòre – Reggiolo RE] all’età di sessantanove anni. Viene
sepolta nel convento di San Benedetto di Polirone, presso Mantova, da dove la
salma, per ordine di Urbano VIII, viene trasportata nel 1632 nel Vaticano e
onorata di un monumento a lei dedicato» (p. 379).
Sono dunque trascorsi
esattamente novecento anni da quando si concluse la vita alla quale è ispirato
il romanzo di Elisa Guidelli. È perfettamente inutile, credo, che io insista su
queste notizie, tanto più che – suppongo – sono arcinote a tutti i presenti,
data la numerosità di celebrazioni delle quali ho saputo, sparse in tutto il
territorio che fu dei signori di Canossa, da una parte all’altra
dell’Appennino, ma anche oltre. Sicuramente la ricorrenza ha favorito pure l’ispirazione
di Elisa, ma sono certo che il suo interesse per la figura di Matilda/Matilde è
ben più antico e profondo: come lei stessa afferma, dura da almeno un decennio.
Presentare un libro – questo
come un altro – significa aver davanti una pluralità di strade, che si
originano dal soggetto presentante e si ramificano negli incroci con l’oggetto
presentato. Mi spiego. Io potrei decidere di indossare l’abito del professore
di storia medievale (che poi sarebbe il mio mestiere), o del critico letterario
(che non è esattamente il mio mestiere), oppure del semplice lettore (che alla
fine può essere il mestiere di chiunque). Il primo, mi pare, è già stato
indossato abbastanza da numerosi colleghi ben più autorevoli di me, in questo
centenario matildico. Il secondo mi costringerebbe a un’analisi troppo interna
al libro e forse addirittura noiosetta, e non solo per me. A tutela di tutti, vorrei
perciò scegliere l’ultimo costume, quello del semplice lettore, anche se ogni
tanto chiederò in prestito agli altri due qualche attrezzo di lavoro.
Voglio dire subito che sono
stato un lettore privilegiato, di questa come di altre fatiche dell’autrice. Qualche
anno fa, ho letto la sua tesi di laurea, come relatore, e non troppo tempo fa ho
letto buona parte della prima versione del romanzo, che allora aveva un altro
titolo (Matilde, contessa, regina, se
non ricordo male) e differiva anche per altri particolari, dei quali poi dirò
qualcosa. Il privilegio si estende inoltre alla possibilità di esternare
pubblicamente le mie impressioni. Ringrazio per tal motivo gli organizzatori di
questo incontro.
Ma le strade offerte a chi
presenta un libro si moltiplicano anche per l’opportunità di scegliere gli
argomenti da evidenziare, o da trattare, che tutti si trovano nel testo, ma si
lasciano scoprire a seconda delle sensibilità e delle intenzioni di lettura.
Non voglio abusare della
pazienza di alcuno e quindi, tra le tante cose possibili, ne sottolineerò tre:
il titolo, i protagonisti, e il rapporto tra storia e romanzo.
Il titolo
Credo che Elisa abbia fatto
benissimo a intitolare questo libro Il
romanzo di Matilda, almeno si svincola immediatamente da ogni ambiguità
narrativa e inventiva rispetto all’ingombrante figura della protagonista.
Personalmente, il nome Matilda, tra l’altro, mi suscita il
ricordo di una canzone, del 1953, di Harry Belafonte (un calypso). Matilda,
quella della canzone, è una tizia simpatica che prende i soldi al cantante e
scappa in Venezuela... 500 dollari che servivano al malcapitato per la casa.
Altra donna fatale, a suo modo.
Non penso che Elisa abbia
condiviso questa suggestione musicale, ma sicuramente ha riflettuto sul nome.
Nella prima versione provvisoria, che ho letto, Matilde si chiamava Matilde, è
diventata Matilda ed è stata con
questo piccolo e semplice accorgimento nel mondo del romanzo e sottratta a
quello della storiografia corrente (Matilde,
contessa, regina). In larga misura si è affrancata dagli obblighi di
seguire i binari della realtà conosciuta e si è potuta addentrare in dimensioni
altrimenti precluse: quelle della vita intima e sentimentale, ad esempio.
Riprenderò tra un po’ questo filo.
I protagonisti
A mio parere, i protagonisti
principali di questo romanzo sono tre. Certamente di primo acchito a chiunque
verrebbero in mente alcuni nomi di persone: Matilde o, meglio, Matilda,
Gregorio VII o, meglio, Ildebrando, che ha il suo storico contrario, ossia
Enrico. Ciò va benissimo, è ovvio, ma io vorrei usare la maiuscola dei
personaggi per contraddistinguere altri tre protagoniti: il Maschile, il
Femminile e il Territorio, e cioè le terre, le (o LA) pianure/A, i boschi, le
paludi, i fiumi e i monti, le strade, i castelli, i borghi e le città nelle
quali si svolgono le vicende narrate.
Voglio partire dal Territorio,
che a mio parere (e me ne rendo conto proprio perché vengo da un altro contesto
geografico) è davvero uno dei protagonisti principali, lo sfondo che amalgama e
unisce tutte le vicende, le rende in larga misura familiari, le avvicina al
lettore, individua pure un pubblico privilegiato. Ciò accade perché esso è
sempre presente, con i nomi e le descrizioni, e lega la figura positiva (quella
di Matilda) e anche altre, minori, a radici ben precise e anche a ben precisi
giudizi di valore. Canossa, Bianello, Carpineti, per nominare solo alcuni
castelli di un’epoca guerriera e signorile, che nelle campagne aveva i suoi
caposaldi... ma anche San Benedetto Po, Nonantola e, più lontano, Pomposa,
abbazie presidio di fede e di potere... ma anche Mantova, Reggio nell’Emilia,
Modena, Lucca... città dove nasceva il nuovo medioevo, fatto di cattedrali
nuove e di mercati e di popolo, ma unite a filo doppio con il passato delle
campagne e della terra e con gli stessi signori delle rocche e dei castelli...
Tutti questi nomi e
tantissimi altri ricorrono nelle pagine del romanzo. Il lettore li sente suoi,
si sente a casa, rassicurato sulla bontà del suo essere. Basti confrontare la
cupezza del primo soggiorno in Germania, ospiti forzate (Matilda e la madre Beatrice)
di Enrico III (o II) il Nero: «A
Bodsfeld faceva freddo, il cielo era sempre grigio, così lontano dall’azzurro e
dalla luce della città in cui era cresciuta [Mantova]. Matilda cercava di non
pensare al verde dei prati e ai riflessi delle acque che la circondavano, ancor
meno alle lunghe cavalcate tra le braccia del padre, e ogni volta che le succedeva
la prendevano fitte di malinconia che la costringevano a chiudersi nella
propria camera da letto a piangere, da sola»
(p.
47). O pensare al senso d’esilio patito a Orval, in Lotaringia, durante il
coniugio con Goffredo il Gobbo: «Matilda si concedeva lunghe passeggiate a cavallo con cui
sfidava il freddo della Lotaringia: la facevano sentire viva, e preferiva
essere sola, per riflettere e ritrovare se stessa. Non aveva legato molto con
le nobili presenti a palazzo, e non solo perché gravitavano tutte attorno alla
famiglia dei Lorena, ma anche perché non aveva molto in comune con delle donne
che non facevano altro che passare il tempo a cucire, parlottare, vivere di
pettegolezzi e di ripicche. Non era il suo mondo, non era la sua gente, non erano
le sue abitudini e non le interessava uniformarsi a quello stile di vita: il
suo unico desiderio era quello di abbandonare quelle terre che la facevano
sentire inutile e straniera, e tornare a casa per ritrovare e riabbracciare i
suoi affetti più autentici. Spesso si era chiesta di quale luogo sentisse
davvero la mancanza. Se Mantova, con le sue acque e le sue luci dorate, che
aveva assistito impassibile alla morte di suo padre, o Canossa, con le sue mura
scure e impenetrabili, che l’aveva protetta e cullata dopo la scomparsa dei
fratelli. Se Lucca, crocevia di genti e di culture, o piuttosto Firenze,
luminosa e spietata, dove si trovava forse adesso la madre. O ancora Roma, coi
suoi ruderi e le sue chiese, regina e ruffiana, custode insidiosa di Ildebrando
e di tutti i suoi segreti. Forse in modo diverso le mancavano tutte, o almeno i
momenti più belli che aveva vissuto in ognuna di esse, e quando la malinconia
l’assaliva cercava di enumerarli uno per uno dentro al suo cuore» (p. 98).
Ecco: questi legami, questa
familiarità che creano empatia per i compatrioti, per la gente di casa, e anche
antipatia per gli estranei, sono un tratto che procede ininterrotto sul filo
del protagonismo del Territorio.
Faccio un esempio al
contrario per spiegarmi meglio. Io vengo dal Friuli, una terra che nel secolo
XI e nel XII, in consonanza cronologica con la storia di Matilde, era soggetta
alle formidabili figure dei patriarchi d’Aquileia, rampolli di famiglie
aristocratiche transalpine, vescovi e signori temporali di un territorio
pressoché senza città. Udine, Gorizia e Pordenone non esistevano se non come
castelli di limitata importanza; Aquileia e Cividale non potevano essere
comparate con le città della pianura padana o della Toscana. Eppure Aquileia
era stata una metropoli e l’erede ne fu il patriarca (del quale, tra l’altro,
il vescovo di Mantova era suffraganeo). Il patriarca d’Aquileia Sicardo, in
quel complicato 1077 (l’anno del dramma di Canossa), fu a fianco del re di
Germania, e ne ottenne il comitato e il ducato del Friuli in dono. L’avvenimento
è ricordato nella mia regione – non senza abbondanti strumentalizzazioni
attualizzanti, ché la storia è ben diversa – come l’atto politico di nascita
del Friuli come stato autonomo. Uno stato che fu abbattuto, si noti,
dall’italianissima e serenissima Venezia nel 1420. Sarà a motivo di questa
memoria storica somatizzata pressoché inconsciamente (e che da storico cerco in
ogni modo di demitizzare), sarà per l’impressione letteraria fortissima che in
me giovinetto liceale creò la lettura del dramma di Pirandello Enrico IV (noto per inciso che la donna amata dall’anonimo protagonista
pazzo o finto pazzo, la marchesa, si chiamava Matilde di Spina), ma io friulano
non riesco proprio a vedere il cattivone così cattivo... Enrico IV (III come
imperatore) è comunque per me un personaggio circonfuso di una tragica
grandezza. Sono sicuro che la maggior parte dei friulani consapevoli della sua
esistenza condividono un vago sentore positivo verso quel sovrano e più
latamente verso l’Impero, spesso sopravvissuto e confuso nei favoriti bianchi
di Francesco Giuseppe I. Il patriarcato condivide pure l’aquila imperiale nei
suoi simboli. Ebbene, sono persuaso che anche in questo caso si può parlare di
un Territorio capace di influenzare il giudizio degli uomini con il peso della
sua tradizione.
Gli altri due protagonisti,
così come mi è parso di leggerli e di materializzarli, vanno esaminati ed
assunti assieme, dato che Maschile e Femminile interagiscono continuamente. Gli
uomini, intesi come maschi, non fanno una gran bella figura nel romanzo,
specialmente un paio di loro: Enrico IV e Goffredo il Gobbo. Forse anche per il
fatto che essi hanno avuto a che fare, in modo conflittuale, con Matilda. Il
discorsetto che Beatrice tiene a Matilda, sua figlia, che aveva appena
manifestato tutto il suo disgusto nei confronti del marito e della terra in cui
si trovava è di gran lunga più efficace di ogni mia considerazione. Val la pena
citarlo: “Siamo
considerate il sesso debole, eppure gli uomini hanno bisogno di noi per
costruire i loro imperi. Lo fanno disponendo del nostro corpo, dei nostri averi
e dei nostri titoli, delle nostre influenze, delle nostre parentele e amicizie.
Lo fanno usando e abusando di noi in ogni modo possibile, ma questo è ciò che
dobbiamo affrontare, e dobbiamo superarlo facendoci forza, poiché siamo sole
davanti alla loro arroganza e alla loro avidità, alle loro debolezze, alle loro
meschinità e alla loro brutalità. E se vogliamo vincere, dobbiamo farlo con
l’astuzia, l’intelletto e tutte le armi che hanno messo a nostra disposizione.
Dobbiamo sopravvivere guardando oltre, spesso staccandoci da noi stesse e dai
nostri desideri. Sono ben cosciente di questa realtà, e anche se io ho avuto la
fortuna di amare Bonifacio vi capisco, e vi sono vicina” (p. 94).
Non
mancano certo le figure maschili positive. Ne scelgo alcune a caso: Arduino da
Palude, sempre discretamente devoto a Matilda, il fedele monaco Anselmo, per
certi aspetti (nonostante il suo spiccato maschilismo) anche Pier Damiani, il
normanno Riccardo Drengot, capace di far conoscere l’amore sensuale a Matilda,
e sopra tutto, pur con alcune ombre (che ogni lettore scoprirà per conto suo:
non posso mica rivelare tutto io!), Ildebrando-Gregorio VII, il vero amore di
Matilda e la sua fonte di ispirazione e di forza. L’elenco potrebbe proseguire,
eppure, nonostante le eccezioni, dalla parte del Maschile stanno tutti i peggiori
caratteri dello spirito umano: l’egoismo, la prepotenza, la brutalità,
l’arbitrio, la superbia, anche la stupidità, l’ottusa incapacità di comprendere
le ragioni degli altri.
Per
le donne non esistono quasi le figure negative. Anche le “nemiche” (tale poteva
essere Agnese, la moglie dell’imperatore Enrico il Nero) sono alla fin fine
giustificate, perché vittime del loro marito, della loro famiglia, di
circostanze sfavorevoli, degli uomini in generale. Il Femminile, sofferente per
gli abusi dei quali è vittima, si carica della positività della vita, dalla
dimensione biologica, a quella degli affetti famigliari, alla ragione e
ragionevolezza dei rapporti sociali.
Vediamo
se ora riesco a dire bene questa cosa, che mi sembra di aver compreso, leggendo
il romanzo di Elisa Guidelli, e che forse è una delle poche piccole osservazioni
dubbiose che posso muoverle. Matilda è indubbiamente l’eroina del romanzo e
l’espressione più alta di umanità che si possa rintracciare: bella, intelligente,
colta, elegante, astuta, determinata, perseverante, persino intransigente, ma
sopra tutto potente e perciò temuta oltre che amata. Nel romanzo non è solo una
bambina e una donna, una contessa (anzi, grancontessa), ma anche una madre scaltra
e amorevole, seppure sposa infelice... Ma questa aura solare ella la raggiunge
per una via che a mio avviso non le rende completa giustizia. Matilde riesce ad
essere campionessa di umanità perché assume le prerogative degli uomini, del
Maschile, che aggiunge alle peculiarità del Femminile: l’autorevolezza, la
forza, la durezza, il valore militare, l’abilità politica... Si potrebbe dire
che appare la più virile di tutti i personaggi del romanzo. Il suo opposto è
un’altra figura femminile, Adelaide di Susa, che apostrofata malamente dal
marito, Rodolfo di Svevia, che le intima di ritirarsi nelle sue stanze, «senza aprire bocca annuì poi si alzò, docile, e se ne
andò. Trasparente come uno spettro. Quella era la sua vita. Un’infinita
sequenza di silenzi e assensi» (p. 135).
Non
voglio dire che la “mascolinità” di Matilda non possa corrispondere ai tempi
storici nei quali Matilde davvero visse e agì (per quanto possiamo sapere dalle
fonti, il medioevo fu in larga parte degli uomini), o che non corrispose alla
sua persona, ma quello del genere delle virtù più o meno pregiate è una
questione che viene comunque risolta, allora come ora, a favore del Maschile...
anche se intrepretato da una donna, almeno mi pare. Matilda è grande perché si
comporta come un uomo. Forse si meritava di meglio?
Storia e romanzo... un problema antico
«Ecco qua! Una faticaccia. Attendo tremante le fustigate!» Con questa e-mail, il 3 marzo scorso,
Elisa mi ha avvertito di aver concluso la scrittura del suo romanzo (io avevo
cominciato a leggerlo nell’estate precedente). Ovviamente non avevo e non ho alcuna
fustigata da infliggere. Ciò nonostante abbia saputo che i miei studenti mi
considerino una sorta di sadico torturatore e nonstante debba ammettere che una
frustatina ogni tanto, nemmeno tanto metaforica, mi piacerebbe darla... Al massimo
avrei qualche annotazione stilistica, ma la confesserò in privato all’autrice,
se vorrà sentirla. Comunque si tratta di dettagli frutto di mie personali
fissazioni: quelle tipiche delle persone che invecchiano e hanno lo sguardo
volto più al passato che al futuro o al presente.
Qui
dirò qualcos’altro, che riguarda pure il mio lavoro. Io ho scritto alcuni libri
e molti articoli di storia, illudendomi di restar fedele alla verità, di fare
ipotesi verosimili, di non falsare alcunché nei miei racconti... Non ho mai
scritto un romanzo, perché mi pareva di non aver l’inventiva per farlo, perché
la realtà che ho potuto man mano conoscere nelle mie esperienze di studio si è
sempre mostrata capace di andar oltre le fantasie più audaci. Eppure col
crescere della mia esperienza di ricerca e di scrittura, mi sono sempre meglio
accorto di quanto proprio la fantasia, l’immaginazione, la capacità di
astrazione e di invenzione siano indispensabili alla storiografia, anche a
quella apparentemente più seria e compita. Meglio si scrive, poi, più si
realizza l’occasione di comunicare con un pubblico in modo piacevole. Se si
realizza questa condizione, si accresce le possibilità della storia, intesa
come narrazione, interpretazione e spiegazione del passato, di continuare a far
parte della nostra cultura occidentale. A patto però che si scriva di cose che
interessano... Elisa mi pare aver colto nel segno.
Nella
comunicazione tra il passato e il presente possono giovare anche i romanzi.
Senza voler essere esagerati o scomodare ospiti ingombranti, Elisa Guidelli ha
mosso i propri passi sulle orme di sir Walter Scott, Alexandre Dumas,
Alessandro Manzoni... «I lettori di Alexandre Dumas
non sono forse altro che storici in potenza, cui difetta solo l’esser stati
orientati a godere di un piacere più puro e, a mio giudizio, più acuto: quello
delle tinte autentiche». Questa scriveva cosa Marc Bloch, settant’anni
fa e più, a proposito dei lettori di romanzi storici. Dei lettori, a punto. Ma
gli scrittori? Gli scrittori dovrebbero già essere storici, più che in potenza,
sebbene liberi di aggiungere quel che la storia non dice o non può dire.
Scrivendo
un libro su Matilda/Matilde con l’animo di una storica, almeno in parte, Elisa
non era del tutto libera rispetto al suo oggetto. In fondo alcuni lineamenti
sono noti (e anche rispettati) al punto da limitare le possibilità di
deviazione, a meno di non voler narrare una storia solamente e vagamente
ispirata ai fatti e ai personaggi del passato. Questa possibilità evidentemente
c’era, ma a mio avviso avrebbe rescisso quel legame così perculiare con il
protagonista Territorio, che qui c’è ed è un autentico pregio.
Ho
accennato prima al piccolo accorgimento del nome: Matilda, la donna del
romanzo, al luogo di Matilde, la donna della storiografia (e noto per inciso
che negli ultimi anni è apparso un numero considerevole di studi e di
monografie, saggi storici e anche d’invenzione, sopra tutto in Italia e in
Germania, su Matilde). Sembra poco, ma così a mio avviso si è aperto quello
spiraglio, quella zona franca che ha consentito a Elisa di affacciarsi su ciò
che agli storici è normalmente precluso, sebbene siano più che consapevoli
dell’esistenza di quella dimensione. Mi riferisco all’universo dell’intimità,
dei pensieri più reconditi, degli affetti e dei sentimenti più intimi, a
quell’universo che le fonti (e specialmente quelle medioevali) non lasciano
scorgere.
Non
ho perciò niente da dire, come storico, se, dal romanzo, intuisco che Matilda
ha avuto i suoi amori, una sua vita sessuale, e anche Ildebrando/Gregorio –
quell’uomo intransigente che posso aver conosciuto dalla documentazione – ha
pagato i propri debiti alla carne e al sentimento. Non starò qui a dire o a
meditare se ciò sia stato possibile, probabile, vero o verosimile... non mi
pare che questo sia il problema: non siamo davanti a un testo di storia, intesa
come quella paludata storiografia accademica alla quale quotidianamente
soccombo, ma a un testo che può permettersi di andare oltre e, forse, di
arrivare a un altro tipo di vero e di reale.
Posso
dire di aver quindi trovato divertente e stimolante la lettura del romanzo: uno
sguardo diverso, un percorso alternativo verso un personaggio di solito
accostato per altre strade. So che l’impresa è stata faticosa, che ha richiesto
indagini e studio, ma so anche che ha espresso i migliori sentimenti di affetto
e di orgoglio per diversi mondi: la figura quasi leggendaria di
Matilda/Matilde, l’appartenenza alle terre matildiche e all’universo femminile.
Chiudo
con un’ultimissima considerazione, che non vuole affatto smentire quel che ho
appena sostenuto. Gregorio VII fu canonizzato nel 1606, circa un quarto di
secolo prima della traslazione romana del corpo di Matilde. Egli è dunque un
santo. Allora ripeto, in via del tutto prudenziale, a Elisa quel che mi fu
detto, in circostanze analoghe, qualche anno fa da un mio maestro: Scherza con
i fanti, ma lascia stare i santi... Non si sa mai!
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